Luciano Moriconi
La storia di Luciano
Durante la Grande Guerra i posti di medicazione sono posizionati subito dietro alla prima linea dove i feriti ricevono le prime cure che si risolvono in semplici bendature; successivamente, in groppa a muli, con carri o semplicemente a piedi, i feriti raggiungono gli ospedaletti da campo, dove il personale medico opera i più gravi e provvede alle medicazione dei feriti leggeri. Ai dissanguati viene somministrata adrenalina e ai più sofferenti, come sedativo, morfina. Quelli considerati incurabili rimangono senza cura e lasciati agonizzare. Non sono rari i casi in cui vengono tolte le bende a coloro che si trovano in stato d’incoscienza, e destinati a morte sicura, per applicarle a qualche ferito salvabile.
I medici militari, mai in numero sufficiente, sempre nervosi e stravolti dalla fatica, dopo gli assalti devono provvedere alla cura di centinaia di feriti e non riescono ad occuparsi di tutti. Dopo una rapida selezione decidono le varie categorie d’intervento: soldati da operare subito e inviare successivamente nei più attrezzati ospedali militari, soldati da curare, soldati con ferite leggere lasciati “parcheggiati” in attesa di cura, e soldati giudicati incurabili. Le scene sono strazianti: feriti che pregano di essere curati, feriti gravi che vengono lasciati morire con un cappellano e una fiala di morfina. La memorialistica ci ha lasciato drammatiche testimonianze sull'orrore di questi posti.
Ecco cosa racconta il tenente medico Gino Frontali:
“Si rovesciano verso il mio riparo – dove ho preparato sull’erba il piccolo armamentario dei miei mezzi di medicazione – ondate d’uomini urlanti, laceri nelle vesti e nelle carni, tinti di rosso come vendemmiatori, agitati come ubriachi. Cadono sfiniti o s’appoggiano alla roccia, s’aggruppano come greggi in attesa. Alcuni reclamano soccorso immediato, piangono per impietosire – altri impallidiscono, impallidiscono in silenzio, in mezzo ad una pozza di sangue che s’allarga – altri agitano arti ciondolanti, ossa denudate, che danno l’impressione del bianco delle lastre fotografiche scoperte alla luce per errore.
Un toscano fa una cantilena dondolando la testa e reggendo con due mani la sua coscia fratturata, canta il suo dolore in poesia come certi mendicanti davanti alle chiese.
Un marchigiano, di Macerata, con una tranquillità da Muzio Scevola m’offre il moncone strinato del suo avambraccio destro, dal quale una bomba ha mozzato la mano”.
(Frontali Gino, La prima estate di guerra, il Mulino, Bologna, 1998)
La storia di un soldato gualdese, Luciano Moriconi, è emblematica per riuscire a capire come la sorte dei feriti fosse decisa da una serie di casualità.
Luciano Moriconi, di Nazzareno, classe 1895, è chiamato alle armi il 15 gennaio 1915 e assegnato al 4° Reggimento Bersaglieri. Successivamente, il 1° aprile 1917, viene trasferito con il grado di Caporal Maggiore al 20° Reggimento Bersaglieri. Il 6 novembre 1917, lungo il corso del fiume Livenza, durante una delle tante battaglie che accompagnano il ripiegamento dell’Esercito Italiano dopo la rotta di Caporetto, Luciano viene colpito in pieno petto da una scarica di mitragliatrice. In fin di vita, sporco di sangue dalla testa ai piedi, il respiro appena percettibile, viene caricato sul carro che trasporta i soldati verso il posto di medicazione.
Luciano arriva all’ospedaletto da campo, dove si trova anche il capitano della sua compagnia, tra la vita e la morte.
Il Capitano lo riconosce: “quello è un mio soldato, cercate di salvargli la vita”.
Un tenente medico, da ore impegnato a curare i feriti, vede le condizioni di Luciano, si infuria e ordina di trasportarlo fuori dall’ospedaletto, in pratica lo condanna a morte: “Perché avete portato dentro questo soldato, ha tutte le costole frantumate, non vedete che è incurabile?”.
Il destino porta Luciano verso il cappellano militare e la fiala di morfina.
La scena che segue è drammatica: con le poche forze rimaste, Luciano comincia a gridare e, ingiuriando nervosamente l’intera umanità, chiede di essere curato. Ancora una volta è il Capitano della Compagnia dei Bersaglieri ad intervenire: “Curatelo senza tante storie, è un bersagliere valoroso e può farcela”. Riceve le prime cure e successivamente viene ricoverato in un ospedale militare dove, pur tra mille sofferenze, riesce a sopravvivere. Per tutto il resto della sua vita Luciano dimostrerà una riconoscenza infinita verso il “suo” capitano.
Luciano è protagonista di un altro episodio, meno drammatico del precedente, ma che conferma la sua buona stella. Da tre settimane il reggimento si trova appostato nelle trincee di prima linea e sono tre giorni che lui e i suoi compagni non ricevono il rancio: un cecchino, da una posizione strategica, riesce a colpire i portantini i quali non riescono a raggiungere la linea. Luciano, esasperato, affamato, esce dalla trincea e si mette a sparare contro il boschetto dove si trova il cecchino e con una fortuna incredibile riesce a colpirlo. Il cecchino muore, Luciano è colpito ad una gamba. Se la cava con una medicazione e la Compagnia può ricevere di nuovo il rancio.
A causa della “ferita trasfossa da pallottole di mitragliatrice penetranti al torace”, dopo la guerra a Luciano viene assegnata una pensione: la sua menomazione non gli permette di fare grandi sforzi, ma la famiglia è numerosa e la pensione non è sufficiente a sfamare tutti.
I figli ricordano che, quando la mattina andava al lavoro, Luciano era costretto ed indossare un busto rigido. La mancanza di alcune costole non gli consentiva una perfetta autonomia lavorativa, ma con la sua forza di volontà è riuscito a formare una bella e unita famiglia.