I mutilati dell'anima
I mutilati dell’anima
Ci sono uomini che durante la Grande Guerra hanno visto cose inimmaginabili e che la tradizione popolare ha vergognosamente chiamato gli “scemi di guerra”.
I soldati che sono tornati a casa con i nervi a pezzi sono migliaia, non hanno ferite evidenti, non sono mutilati e non hanno i polmoni bruciati, soffrono di una malattia indecifrabile: sono i mutilati dell’anima. Cosa videro durante la guerra questi soldati?
Le cartelle cliniche sepolte negli archivi degli ospedali psichiatrici testimoniano le situazioni vissute dai soldati e spiegano le cause scatenanti della temporanea pazzia: ci parlano del soldato che correndo all’assalto inciampa e affonda la testa dentro il ventre di un corpo in putrefazione e del soldato che guarda rotolare la testa di un commilitone. Un tenente vede scomparire l’amico colpito da un proiettile da 305: solo il cuore rimane dell’amico e da allora lo rivede tutte le notti con il cuore sanguinante in mano; la sofferenza di riordinare i ricordi durante il giorno viene distrutta di notte dagli incubi che riportano il reduce dentro gli orrori della trincea.
La storia di un soldato gualdese, Domenico Gaudenzi, è emblematica per provare a comprendere le sofferenze sopportate dai nostri soldati.
Domenico Gaudenzi, di Vincenzo, classe 1895, 269° reggimento fanteria, meglio conosciuto come Mencuccio (un soprannome che è tutto un programma), molti gualdesi ancora lo ricordano seduto sulla sua panchina davanti alla chiesa di Santa Chiara, nel quartiere “Pisciarella”, con il toscano sempre accesso che per diletto dei ragazzi si divertiva a fumare al contrario, con la brace in bocca, retaggio di trincea.
E’ un portabarelle, dopo la battaglia recupera decine di corpi, sempre sotto il tiro dei cecchini che fanno il loro sporco lavoro: corpi sconosciuti e corpi di amici con i quali aveva condiviso, fino al giorno precedente, le sofferenze della guerra.
Quando scende la notte sul campo di battaglia, pieno di soldati che chiamano la mamma in tutti i dialetti d'Italia, se le condizioni lo permettono dalle trincee escono i barellieri: coppie di uomini con barella si trovano davanti ad una sofferenza senza fine, vedono in pochi minuti tutta l’atrocità della guerra.
Recupera ieri, recupera oggi, i nervi di Domenico cedono: lo ricoverano al manicomio militare, dicono che sia ammattito. Quando finalmente riesce a rimuovere gli orrori di cui è stato testimone lo rimandano al reggimento con la stessa mansione di portabarelle; guadagna la Croce al Merito di Guerra per aver portato in salvo decine di soldati, incurante del pericolo, sotto un violento bombardamento nemico.
Domenico torna a casa che è un cadavere vivente, cupo, rabbioso, sfoga la sua rabbia con tutti, con nessuno in particolare. E’ sempre taciturno, rimane chiuso in camera giornate intere e non vuole parlare con nessuno; come tutti i reduci sa benissimo che solo chi ha combattuto in quella macelleria chiamata Grande Guerra potrebbe capirlo. Però bisogna pur campare: parte per la Maremma, con altri gualdesi e con il suo dolore. Di giorno lavora, di notte rivive la battaglia, i morti, le luci e i suoni, un rumore assordante che non gli permette di dormire. Cede di nuovo. La sua rabbia esplode improvvisa mentre si trova in un caffè ritrovo: lo demolisce, letteralmente. Questa volta lo portano in prigione, dove ricostruiscono la sua storia: è un eroe di guerra, un decorato, Croce al Merito di Guerra, portantino del 269° reggimento fanteria. E’ il 1922, ottiene il “perdono” e una pensione annua di lire 300.
Mencuccio, seduto sulla panchina della Pisciarella, raccontava le vicende della guerra tutti i giorni, storie vere e irreali. Parlava dei campi di battaglia pieni di morti e delle colline colorate di rosso dal sangue dei soldati; quando capiva che nessuno poteva comprenderlo, attaccava con una storia insensata per rallegrare la compagnia:
“Una volta è venuto il Re a fare un discorso e me toccato dijelo che la regina non facea altro che scrivemme. E che me lassasse un po’ in pace! N’altra volta ce portano co la nave a Venezia e mentre stavamo a navigà nun sbattemo contro un piantone che stia in mezzo al mare? ‘Na botta!”.
Una storia vera e dieci assurde: anche i brutti ricordi devono riposare. E così Mencuccio è sopravvissuto: raccontando.