Gli ultimi giorni dell'umanità
di Gianni Paoletti
Gli ultimi giorni dell’umanità. Grande Guerra e memoria
“A Sua Maestà il Re. Se per disgrazia l’Italia andrà in guerra e che io, povera madre vedova, sia privata del mio unico sostegno e di mio fratello che è quello che mantiene la mia povera mamma, le assicuro che la vita di Sua Maestà il Re, e i membri della Sua Famiglia sarà una ben dura sorte li attende, perché la maledizione di tutte le madri italiane cadrà sul loro capo come fulmine dal cielo, credo che la guerra non verrà, perché prima della guerra verrà la Rivoluzione, che qua in Italia ne abbiamo molto bisogno, che così si potrà sradicare quella maledetta Casa Savoia che più di sventure per l’Italia non porta, e con loro tutti i ministri che più di Ladroni non sono”.
Questa lettera di innocua intimidazione giungeva al Quirinale nei primi giorni di aprile del 1915. L’illustre destinatario, Vittorio Emanuele III, con ogni probabilità non la lesse mai, così come non lesse molte altre lettere del medesimo tenore che verosimilmente dovettero partire da tutta Italia in quelle settimane concitate che precedettero il 24 maggio, giorno in cui l’Italia entrava ufficialmente nel primo conflitto mondiale, dalla parte dell’Intesa. Dogali, Adua, la Libia: di sangue gli italiani, ufficialmente tali da poco più di cinquant’anni appena nel 1915, ne avevano versato già parecchio. Eppure, nulla in confronto all’ecatombe che sarebbe stata la Grande Guerra. Quella che gli interventisti avevano frettolosamente e incautamente definito una indolore “passeggiata su Vienna” sarebbe presto diventata un massacro immane, in cui, per la maggior parte, sarebbero stati “morti di fame contro altri morti di fame” ad ammazzarsi l’un l’altro, sulle montagne dell’arco alpino orientale. Specie coloro la cui unica trincea sarebbe rimasta, al massimo, il tavolino dell’elegante caffè posto lungo il corso principale cittadino - o la scrivania del comodo studio, o la severa cattedra, o anche la battagliera redazione - arringavano gli ultimi riottosi sul valore del sacro bagno di sangue, perché anche quelli si convincessero che la guerra era davvero l’unica vera “igiene del mondo”, secondo la nota formula marinettiana. La retorica roboante e barocca dei belligeranti a parole, in tutta la sua enfasi tronfia, in stile dannunziano, urta contro le frasi disordinate e piene di errori di quell’anonima italiana che ammoniva il Re. Vi sbatte contro, e svanisce in tutta la sua vacuità, stritolata dalla concretezza, inelegante ma vera, delle paure di chi al caffè non c’era mai andato in vita sua, e che della trincea avrebbe presto conosciuto la versione non metaforica. Quelle parole sgrammaticate dell’anonima, al contempo madre, figlia e sorella, che invocava la Rivoluzione a impedire il disastro, sono la sintesi perfetta della percezione che, a buon diritto, della guerra ebbero le popolazioni italiane: un vero e proprio castigo divino.
Una guerra di contadini contro altri contadini. Contadini, mezzadri, braccianti. Che nella trincea di italiano ne masticavano ancora poco, che parlavano i mille dialetti locali, che non avevano mai visto nulla al di là del borgo più vicino, che avvertivano l’ancor giovane Stato italiano come un potere oscuro e ineludibile e che pure avevano ricevuto, insieme a quello del catechismo, anche l’insegnamento dei valori altrettanto sacri dell’ancor vicino Risorgimento, insieme, se erano fortunati, al leggere, scrivere e far di conto. I contadini: che mangiavano la carne solo a Pasqua e a Natale e che sognavano di andarsene in America, dove le strade, si diceva, erano lastricate d’oro, o quasi. Poveri, ignoranti, per lo più soggetti ad una qualche forma di notabilato: industriale nel nord-ovest, agrario al centro, semi-feudale nel sud. Quella cricca trasversalmente alleata di potenti, insomma, che l’intervento lo voleva: i “pescecani di guerra”, come si diceva allora, che dalla logica delle cannonate avrebbero avuto da costruire o da consolidare durature fortune. Solo la Rivoluzione, invocata da quella lettera di minaccia, avrebbe potuto salvare e affrancare il popolo da quella terrificante nuova prospettiva di tribolazioni e miseria. Una rivolgimento, una palingenesi dei “cafoni”, per dirla con Silone, un evento vagheggiato più che pensato coerentemente, e che aveva più i tratti dello slancio anarchico e spontaneistico, che non la sistematicità teorica e il rigore organizzativo del socialismo scientifico di Marx, che pochissimi conoscevano davvero.
Il libro in cui il lettore sta per addentrarsi racconta, e questo è fra i suoi pregi maggiori, la guerra dalla prospettiva di quello stesso popolo che vedeva in essa la peggiore delle sciagure e che portava in processione la Madonna di Loreto, chiedendo alla Vergine Santa di scansare quella tremenda prova dal proprio cammino. Narra una parte, la parte più vicina a noi, di questa storia popolare di sacrificio, di paura, di sofferenze, ma anche di dovere sentito e compiuto, di eroismi.
Questo volume ha la sua prima origine, il suo movente iniziale, nelle tracce lasciate dalla prima guerra mondiale in una tradizione orale domestica, in racconti, ancora fortemente intrisi di un coinvolgimento personale, sul destino di cari che a quel conflitto avevano preso parte. L’ambiente familiare e privato, quindi, è all’inizio di questa poderosa opera di scandaglio, che, col crescere e l’allargarsi dei materiali di archivio, ha finito col rappresentare una storia quanto mai collettiva. Con moltissima pazienza, con infinita passione, con sensibile accortezza e, soprattutto, col senso dell’obbligo morale della memoria, i due autori hanno cominciato, quindi, una fittissima attività di ricerca, tutta di prima mano, inedita, dando un contributo ragguardevole agli studi sulla storia gualdese in epoca contemporanea, nel cui ambito mancava proprio uno volume monografico sulla Grande Guerra. Essi hanno il merito, in altri termini, di aver colmato un vuoto, al quale, a quasi un secolo dalla fine di quel conflitto, si doveva porre rimedio. Fra le molte cose interessanti del libro vi è proprio la pittura perspicua di Gualdo Tadino nei primi anni del Novecento: un piccolo paese, quale non appare più a noi, una società prevalentemente contadina, che combatte con la penuria, che si affida alla radicata fede cattolica, che si arrangia come può. Un piccolo mondo antico, fatto di pane e lavoro: il binomio di una altrettanto piccola felicità, che la guerra intervenne a compromettere. Non è un caso, infatti, che nelle bellissime lettere inviate dai combattenti gualdesi, trovate e riprodotte nel volume dagli autori, si parli quasi sempre, fra le prime cose, del raccolto, dei lavori di vendemmia, della casa da risistemare: si parla, insomma, della vita, riflessa nelle faccende quotidiane, che diventano gli specchi su cui si rifrangono gli affetti più cari, perché a ognuno nella famiglia, coesa e spesso numerosa, tocca un ruolo distinto, indispensabile nello sforzo comune del tirare innanzi. Spesso queste lettere commuovono. Si partecipa per pochi minuti di quelle vite e si riesce ad avere anche un’idea, seppure vaga, dell’angoscia che, ad un capo ed all’altro dell’itinerario della posta, si doveva provare. Quelle lettere dei combattenti sono, poi, una delle parti più interessanti e originali della ricerca svolta dagli autori, anche a motivo del fatto che proprio gli epistolari e i diari di guerra sono quanto di più raro da rinvenire e di più illuminante dal punto di vista dell’analisi storiografica.
La Grande Guerra narrata nel microcosmo della cittadina, dunque, specchio indiretto dei grandi eventi. Ma com’era Gualdo Tadino in quei primi quindici anni del secolo XX? Era un paese di dimensioni modeste, povero, tutto o quasi raccolto nelle sue vecchie mura o in quello che ne rimaneva. Un borgo attaccato ad una montagna, in cui, nei secoli, sembrava essere sfiorito quel certo lucore culturale e civile che l’aveva attraversato per un buon tratto della modernità. La politica e l’istruzione vi erano ancora concepite come privilegi di un’élite, mentre imperversavano, fra la massa dei più, come fossero una condizione naturale e necessaria, fame, malattie, ignoranza e degrado. Cominciava, tuttavia, a sorgere anche una certa primitiva coscienza di classe, frutto soprattutto delle novità che del gran mondo si apprendevano soprattutto dagli emigrati, che partivano a frotte. Nel 1912 venne ultimato l’ospedale, sorto grazie alla generosità di Monsignor Roberto Calai, che se ne accollò per intero le spese di realizzazione, dimostrando nei fatti che il Vangelo poteva, come doveva, essere molto di più che una disimpegnante formula puramente teorica. Cominciarono a circolare le prime automobili, furono costruiti l’impianto telefonico e quello elettrico. Ma, intanto, in mezzo a tanti, palesi segni di un progresso inarrestabile, non si placavano le proteste popolari per il rincaro dei beni di prima necessità e per i contratti mezzadrili troppo esosi. Uno scenario, in altri termini, ancora ottocentesco, in cui gli agi e gli splendori della modernità rimanevano una rarità concessa a settori esigui, minimali della immobile, piccola provincia.
Il progresso, la crescita, l’abbondanza, la libertà, sarebbero stati i frutti, si diceva allora, di questo definitivo rifulgere della ragione nella nuova epoca, in cui, per prima cosa, non ci sarebbero state più guerre. Il nuovo secolo, il XX, avrebbe dovuto portare, insomma, solo pace e benessere, quelle “magnifiche sorti e progressive”, cioè, previste dall’entusiasmo del positivismo, dimostrate dai passi in avanti delle scienze e messe in pratica dall’industria e dalla prima produzione di massa. Quel nuovo secolo, manifestò, invece, già ai suoi inizi, anche una faccia sgomenta, scioccante: nelle fosche, destabilizzanti visioni della psicoanalisi, nel superomismo, più o meno frainteso, di Nietzsche, nell’antiparlamentarismo di certi politologi come Pareto e Mosca, nell’arte d’avanguardia o nei romanzi di Kafka. Ma anche nella sciagurata corsa ai primati economici, politici, e strategici cui si assistette già sullo scorcio dell’Ottocento. Corsa che si intensificò bruscamente nel 1905, con la prima delle due crisi marocchine, per non arrestarsi più, fino all’estate decisiva del 1914, e, per L’Italia, alle “radiose giornate di maggio” del 1915. La cultura primo-novecentesca, supportata dai sussulti arrecati dagli eventi, in differenti dei suoi infiniti rivoli, sembrava aver vaticinato, insomma, una sorta di profezia nera: l’illusione della felicità perenne dell’uomo moderno, razionale e accorto calcolatore dell’utile, si sarebbe sciolta di fronte all’incalzare di una furia bestiale, di cui “l’inutile strage” del 1914-18 sarebbe stata il primo spaventoso atto. Come recitava il titolo della celeberrima opera teatrale di Karl Kraus dedicata alla prima guerra mondiale, sarebbero scoccati gli “ultimi giorni dell’umanità”.
Ma è nel “piccolo” della storia cittadina che questo bel libro si inserisce, con una ricerca originale e indispensabile. Ed è nel piccolissimo, per dir così, di due esperienze personali che voglio concludere queste considerazioni.
La prima volta che ho sfogliato il volume (allora ancora in bozza) che il lettore sta per leggere, lo sguardo mi è caduto su una fotografia. Mostra la faccia di un “giovinetto del ‘99”, uno di quei diciottenni che, nel 1917, dopo la rotta di Caporetto, furono richiamati alle armi. Quella faccia mi aveva impressionato. Anzi, di più, mi aveva turbato. Mi aveva turbato il pensiero abissale che vi possa essere stata un’epoca, non poi così lontana, in cui si poteva finire a diciotto anni in una guerra. Qualche tempo dopo comunicai quella sensazione, o almeno provai a farlo, parlando della prima guerra mondiale alle mie classi, che sono piene, naturalmente, di diciottenni: esuberanti, vitali, brillanti, ironici, commoventi e seccatori al tempo stesso, come gli studenti devono essere. Battaglie, nomi altisonanti, toponimi sconosciuti, descrizioni di passaggi politici e diplomatici: tutto questo difficilmente, nell’insegnamento della storia, si riesce a scardinare dalla grigia coltre di una sorta di archeologia polverosa. Ma quando ho fatto vedere quella faccia spaurita con un cognome così familiare scritto sotto, allora è successo qualcosa. L’attenzione, guadagnata prima solo come un interesse formale, neutro, di fronte alla storia percepita come la pura informazione su un passato che non riguarda più nessuno, quell’attenzione è diventata partecipazione. I colli si sono allungati, le mani hanno preso in mano quella foto portata in copia, come se si trattasse di maneggiare l’immagine di un bisnonno mai stato tale e mai conosciuto, di un lontanissimo parente, di qualcuno che aveva un che di familiare, per quanto vago e nebuloso. La storia, d’improvviso, era diventata affare attuale, urgente, quasi una questione personale. Il ragazzino, infatti, al fronte c’era morto, nel ’16 o nel ’17, non ricordo più. Qualcuno in classe ha detto Iraq, qualcun altro Afghanistan, e altri altre cose che non rammento. La storia era diventata il presente, seppure attraverso lo shock della morte di un diciottenne. Per quanto lontana quasi un secolo. Una banale fotografia, scovata in qualche soffitta, aveva reso non retorica la convinzione che ricordare le guerre passate lo si deve anche perché non ce ne siano più. Pace, tolleranza, dialogo, da opache dichiarazioni di principio, di fronte a quella figura di un ragazzino spaventato dalla possibilità di non rivedere più le strade che noi, oggi, percorriamo tutti i giorni, diventavano esigenze, impegni da assumersi. Ricordare per fare, non ricordare e basta. Se la storia può avere un senso morale, un compito etico e civile, al di là del rispetto dovuto ai canoni della pura, e in sé autonoma, scientificità storiografica, sta in questo risvolto attivo che viene dal sapere. Diversamente, essa rimane archeologia. Bella, appassionante anche. Ma inutile.
Oggi, appena sotto la Croda Rossa, vicino a Sesto, Valpusteria, su un prato ci sono dei giochi per bambini. La gente appena arrivata in funivia indugia e si gode la gioia dei più piccoli, occupati con trattori di plastica, scivoli, altalene e via dicendo. Prima di cominciare una passeggiata o magari al ritorno da un breve tragitto ci si siede sulle panchine di legno e si dà uno sguardo ai bambini e uno alla Croda: entrambe le cose suscitano una sorta di ammirazione, nell’un caso per la sublime tenerezza dell’infanzia, nell’altro per il sublime della bellezza delle Dolomiti. Il sentiero più semplice è segnalato sulle tabelle di legno in maniera inequivocabile per i turisti: “per famiglie”. Un percorso ad anello che arriva a lambire il confine incerto fra la terra molle del prato e la roccia spigolosa che arriva alla cima. Un tipico paesaggio alpino, tirolese.
Su quelle rocce, da quelle rocce, su quei prati, novant’anni fa, uomini e in qualche caso, specie dopo il 1917, ragazzini cadevano a terra, per non rialzarsi più. Facendo un giro, in tutta comodità, con il bambino in spalla, e moglie al seguito, mi è venuto con insistenza da pensare a quelli che avevano visto con i loro occhi questi luoghi fra il 1915 e il 1918. Cercare di capire cosa si provasse era impossibile, dato che l’angolatura emotiva del mio sguardo era esattamente opposta a quella del fante, italiano o austriaco che fosse. Immedesimazioni sarebbero state ridicole e, in definitiva, false, retoriche. L’unico guizzo, la sola fugace, e in fondo, banale intuizione era che tanta bellezza contrastava con lo scenario terrificante che avevo letto nei racconti di guerra o visto nelle rare immagini originali. L’unica cosa giusta da fare mi era parsa, quindi, quella di rimanere in silenzio. Non so se fosse una specie di preghiera, taciuta, detta a modo mio. Mi sono tolto istintivamente il cappello, e ho ripensato a quel volto di ragazzino visto nel libro che avete fra le mani. Parlava il mio stesso dialetto, ho pensato, e chissà quante volte avrà, come me, come noi, attraversato la piazza davanti alla cattedrale, quante volte avrà fatto, come noi tutti, una camminata a Valsorda. Me lo sono figurato nei vicoli, che salutava prima di partire per il fronte, magari usando quelle formule sdrammatizzanti tipiche della parlata gualdese - c’arvedemo, o chissà cos’altro -, mentre se ne andava per conquistare, suo malgrado, il suo pezzo d’Austria. Un ragazzino di diciott’anni, ho pensato. Sono rimasto ancora un po’ in silenzio, poi ci siamo avviati verso l’impianto per scendere a valle. In funivia fantasticavo ancora un po’.
C’arvedemo, ho pensato, mentre guardavo la cima della Croda Rossa che si allontanava.