Domenico Retini
Domenico Retini, di Salvatore, classe 1898, 277° reggimento fanteria
“Prima dell’assalto ti davano tutto il cognac che volevi, io non l’ho mai bevuto perchè ti rincoglioniva. Ti faceva passare la paura, ma poi non capivi più niente e uscivi dalla trincea gridando come un matto Savoia e crepavi. Dall’altra parte uscivano dalle trincee urlando Hurrà e crepavano anche loro. Adesso che è finita, bevo quanto me pare. Nun ve sta bene?” Questa era la consueta risposta, a chi lo sgridava perché “alticcio”, di Domenico Retini, classe 1898, che come tanti altri gualdesi ha conosciuto le trincee della Grande Guerra, combattendo con il 277° Reggimento Fanteria della Brigata Vicenza.
Considerava imboscati tutti quelli che non avevano fatto la guerra e come tutti i reduci conviveva con il continuo ricordo della trincea:
“Correvi verso la trincea nemica e le mitragliatrici ti falciavano, per riparo una buca o una pietra, poi di nuovo di corsa. Arrivavi ai reticolati e cominciava il tiro al piccione. Se eri fortunato raggiungevi la trincea nemica e cominciava la mischia. Bombardamento e contrattacco. Neanche il tempo di pensare che me l’ero scampata che arrivava l’ordine di avanzare verso l’altra trincea. Di nuovo all’attacco, di nuovo correndo in mezzo ad un casino che non capivi più niente, di nuovo il corpo a corpo”.
L’assalto sulla Bainsizza, il 22 agosto 1917, era l’incubo ricorrente di Domenico, una data come tante altre nel mattatoio della Grande Guerra, quel giorno ha capito quanto valeva poco la sua vita, solo una serie di episodi fortunati ti permetteva di rimanere vivo:
“Il 22 agosto, sulla Bainsizza, due assalti alla baionetta ce semo fatti, tornà vivi era solo una fecenna de fortuna, nel mio settore eriamo in 500, semo armasti in 75. E ce potea gì peggio…..”.
Una grandinata o il rumore di un forte temporale lo portava di nuovo dentro la trincea:
“Manco ve l’ammaginate i fischi degli scrappenel (Shrapnel, granate a frantumazione…) quanno arriaveno. Era come un miagolio continuo e un cigolamento de porte, ma forte, t’accucciavi e aspettae. Se eri fortunato, dopo l’esplosione t’alzae e annavi a vedè ta chi era toccato”.
Per Domenico (come per tutti i fanti) il momento peggiore era quello che precedeva l'assalto. Molti scrivevano quella che ritenevano essere la loro ultima lettera, altri sgranavano il rosario, la maggior parte restava in silenzio. C’era anche chi scriveva sulla roccia. Tra i suoi ricordi, le centinaia d’incisioni che facevano i soldati: “Specie la sera prima dell’assalto c’era chi se mettea a piagne come un fio piccolo, chi pregava, chi smadonnava, e c’era chi se mettea a scrive su pe le rocce, se gli dicei che scrivea affà t’arisponnea che così gl'imboscati ce credono che semo morti sul serio. Quanno scriveano durante l’ozio ce se metteamo di buzzo bono”.
Nella zona del Carso, dove ha combattuto Domenico, ci sono migliaia di testimonianze incise con le baionette sulle rocce prima di affrontare la morte. L'esergo di un libro di Antonio Scrimali, rende comprensibili le motivazioni delle incisioni:
«Se un giorno gli uomini taceranno, se l’ingratitudine ucciderà ogni ricordo, grideranno le pietre».